Perché abbassiamo la radio quando parcheggiamo? Tra carico cognitivo e bisogno di controllo ambientale
- Matteo Manzi

- 17 apr
- Tempo di lettura: 4 min

Una scena quotidiana
L'idea per questo articolo mi è venuta da un classico meme che gira su internet ma che mi ha fatto riflettere, capita a tutti: siamo alla guida, magari con la musica alta o una trasmissione radiofonica in sottofondo, e nel momento in cui iniziamo a cercare parcheggio... il gesto è automatico. La mano ruota la manopola o tocca lo schermo, e abbassiamo il volute o spegniamo direttamente la radio. Nessuno ce lo ha insegnato, nessuno ci ha detto che è necessario. Eppure lo facciamo, quasi sempre, con una naturalezza che sembra istintiva. Perché, nel momento in cui il compito si fa più impegnativo, sentiamo il bisogno di togliere il suono?
Il paradosso del rumore irrilevante
La cosa curiosa è che, in teoria, il suono dell'autoradio non dovrebbe interferire con il parcheggio. Parcheggiare è un compito prevalentemente visivo e motorio (anche se a volte delicato): si tratta di controllare gli spazi, orientare il veicolo, calcolare distanze e angoli. Eppure, il semplice rumore di sottofondo - che fino a un momento prima sembrava innocuo, se non addirittura piacevole - all'improvviso ci appare "di troppo". Un intralcio. Un fastidio. Come se, per poter attivare al meglio la nostra attenzione spaziale, dovessimo liberare il campo da qualunque stimolo non necessario. Come vedremo, non è tanto una questione di distrazione, quanto di carico: il nostro cervello, in quel momento, ci sta chiedendo più risorse e per rispondere, dobbiamo alleggerirlo da tutto ciò che "non serve".

La soglia di carico cognitivo
Questa dinamica si spiega attraverso il concetto di carico cognitivo e, in particolare, di carico attentivo. Ogni compito che svolgiamo richiede una quota delle nostre risorse mentali: attenzione, memoria di lavoro, capacità di selezione e inibizione. Ma queste risorse non sono infinite. La Load Theory of Attention, formulata da Nilli Lavie a partire dagli anni '90, ha mostrato che quando ci troviamo di fronte a un compito impegnativo - come parcheggiare in uno spazio ristretto o in un contesto urbano complesso - tendiamo a saturare le nostre capacità di elaborazione. In queste condizioni, qualsiasi stimolo non pertinente può diventare un ostacolo, anche se appartiene a un canale sensoriale diverso da quello direttamente coinvolto.
Non è quindi necessario che il rumore interferisca sul piano motorio: basta che occupi risorse cognitive. Questo fenomeno è noto anche come overload sensoriale: il sistema percettivo si trova a dover processare più stimoli di quanti ne possa gestire efficacemente, e la qualità delle prestazioni ne risente. È stato dimostrato che, superata una certa soglia, il cervello fatica a mantenere la concentrazione, aumenta i tempi di reazione e commette più errori. Il suono diventa quindi un fattore di disturbo non per la sua natura, ma per la sua irrilevanza rispetto al compito. In parole povere: non ci serve, e quindi ci pesa.

Il bisogno di controllo ambientale
C'è però anche un altro elemento in gioco, più sottile ma altrettanto rilevante: il controllo ambientale. Abbassare il volume dell'autoradio è un gesto semplice, ma racchiude un significato profondo. In quel momento, stiamo cercando di prendere il controllo del nostro ambiente sensoriale. Regoliamo gli stimoli per metterci nelle condizioni ottimali di concentrazione. In un certo senso, è una forma di autoregolazione cognitiva: scegliamo attivamente di ridurre la complessità percepita per mantenere alta la qualità della nostra prestazione.
In ambito di psicologia ambientale, questo tipo di risposta è ben documentata. Già negli anni '70, studi come quelli di Glass e Singer hanno mostrato che avere la possibilità di controllare (o anche solo di percepire come controllabili) alcuni stimoli ambientali stressanti, come il rumore, riduce significativamente la sensazione di stress e migliora le performance. In un ambiente chiuso come l'abitacolo di un'auto, dove gli spazi sono ridotti e le azioni devono essere precise, questa regolazione degli stimoli diventa ancora più importante. E rappresenta, a ben vedere, una piccola ma potente forma di design: non del veicolo, ma dell'esperienza.

Una riflessione più ampia
La domanda, a questo punto, si allarga: se ci viene naturale abbassare la radio per concentrarci su un'azione impegnativa, cosa succede negli ambienti in cui questo tipo di controllo non è possibile? Pensiamo agli uffici open space, alle aule scolastiche rumorose, ai coworking affollati, ma anche a certi musei sovraccarichi di stimoli visivi e acustici. Ambienti dove il rumore, le conversazioni, le notifiche e le interferenze sensoriali sono costanti, spesso imprevedibili, e fuori dal nostro controllo diretto.
In questi contesti, il carico cognitivo si accumula rapidamente e senza possibilità di modulazione, la qualità del lavoro o dell'apprendimento si riduce. Studi recenti hanno mostrato che l'esposizione continua a rumore ambientale in ufficio può abbassare le prestazioni nei compiti di memoria anche del 20-30%, e che in ambito scolastico il rumore di fondo riduce sensibilmente la comprensione e la capacità di lettura. A lungo termine, l'impossibilità di gestire gli stimoli ambientali può contribuire a fatica mentale cronica e stress.
Per questo, progettare ambienti che rispettino la soglia di carico attentivo umano non è un dettaglio, ma una necessità. Così come abbassiamo il volume della radio per parcheggiare, dovremmo poter "abbassare il volume" degli spazi che abitiamo ogni giorno. Attraverso soluzioni acustiche, aree di quiete, materiali fonoassorbenti, ma sopratutto attraverso una nuova consapevolezza progettuale. Perché solo quando il rumore si fa meno invadente, l'attenzione può davvero trovare spazio.




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