Cultura del benessere vs. rispetto delle norme: cosa manca davvero nei luoghi di lavoro italiani?
- Matteo Manzi
- 8 mag
- Tempo di lettura: 5 min
Nel dibattito contemporaneo sul benessere lavorativo, l’Italia occupa una posizione peculiare: molte delle tutele che in altri contesti vengono considerate avanguardie sono qui, da tempo, garantite per legge. Orario di lavoro, ferie, congedi parentali, diritto alla salute, sicurezza: esiste un impianto normativo che tutela i lavoratori sotto molti aspetti. Eppure nel quotidiano si continua a respirare un’aria di disagio: disconnessione, stress cronico, mancanza di fiducia reciproca, difficoltà nella conciliazione vita-lavoro e disinteresse per le condizioni spaziali in cui il lavoro si svolge, preoccupandosi unicamente che un ambiente di lavoro sia "legale" e funzionale.
Questa apparente contraddizione solleva una domanda fondamentale: cosa significa davvero benessere lavorativo in un paese dove molti diritti sono formalmente garantiti, ma faticano a diventare cultura condivisa? La riflessione diventa ancora più rilevante se consideriamo che i luoghi del lavoro sono anche luoghi dell’abitare temporaneo (il 67% della popolazione in età lavorativa è occupata e questa passa circa il 24% della propria vita a lavoro): spazi che influenzano l’umore, la produttività, il senso di appartenenza. In questo contesto, strumenti come il protocollo WELL possono fungere da lente d’ingrandimento utile per analizzare criticità sistemiche.

Il paradosso italiano: diritti senza cultura
È innegabile che, rispetto a contesti come quello statunitense, l’Italia disponga di un sistema più avanzato in termini di tutele lavorative. Tuttavia, la presenza delle norme non si traduce automaticamente in qualità dell’esperienza. Ad esempio, la maternità è coperta per legge da un congedo di cinque mesi retribuiti, ma la paternità resta marginale. Questo sbilanciamento alimenta una cultura che considera ancora la cura familiare un dovere femminile.
Allo stesso modo, molti diritti legati alla sicurezza o al work-life balance esistono sulla carta, ma nella pratica vengono aggirati o vissuti come meri obblighi burocratici. In altri casi, sono i lavoratori stessi a non sentirsi legittimati nel rivendicarli, per paura di essere percepiti come "deboli" o "problematici". Eppure, secondo l’OMS, un ambiente psicologicamente non sicuro è tra le principali cause di assenteismo e calo della produttività. Secondo i dati del protocollo WELL, oltre il 30% degli adulti sperimenterà una condizione di salute mentale nel corso della propria vita, ma la stragrande maggioranza non riceverà cure adeguate.
Il benessere come cultura diffusa, non solo come policy
Il concetto di benessere non può essere ridotto solo all’assenza di rischio o all’osservanza di regole: è un processo attivo, che coinvolge l’identità personale, la motivazione, le relazioni, il senso di agency. Per essere efficace, deve diventare parte integrante della cultura aziendale e non un insieme di benefit occasionali.
Qui entrano in gioco strumenti come il WELL Building Standard. Non tanto come modelli da applicare acriticamente, ma come sistemi di pensiero che ci aiutano a spostare lo sguardo: dalla norma al vissuto, dal dovere alla possibilità. Le sezioni Mind e Community del protocollo non prescrivono solo requisiti tecnici, ma spingono le organizzazioni a ripensare il proprio ruolo nella promozione della salute mentale, dell’inclusività e della partecipazione.
Alcuni esempi pratici possono aiutare a colmare il divario tra policy e cultura: la somministrazione periodica di questionari sul benessere percepito (anonimi e facili da compilare), l’accesso facilitato a servizi di consulenza psicologica (anche online), la diffusione di brevi newsletter o email tematiche che affrontino con leggerezza temi legati alla salute mentale, come stress, ansia, burnout. Per il benessere fisico, si possono proporre pasti salutari e inclusivi, organizzare brevi corsi su corretta postura, sollevamento carichi, gestione delle pause, oppure introdurre segnaletica visiva per favorire l’idratazione e il movimento. Questi interventi non richiedono grandi investimenti, ma mostrano attenzione concreta e soprattutto fertilizzano il terreno per la crescita di una nuova cultura aziendale.

Progettare per generare cultura
Il rischio, parlando di benessere lavorativo, è di cadere in una retorica esclusivamente legata alle risorse umane: benefit, orari flessibili, congedi, team building. Aspetti fondamentali, certo. Ma il design (fisico, sensoriale, ambientale) ha un ruolo altrettanto cruciale e spesso sottovalutato.
Uno spazio ben progettato può veicolare valori, suggerire comportamenti più sani, abbattere barriere invisibili. La presenza di luce naturale, di materiali accoglienti, di spazi di decompressione o di quiete, contribuisce a creare ambienti in cui ci si sente accolti e rispettati. La progettazione biofilica e il restorative design non sono soluzioni estetiche, ma strumenti per sostenere l’equilibrio cognitivo, la rigenerazione mentale e la riduzione del carico emotivo.
In questo senso, WELL può fornire spunti utili, ad esempio quando promuove l’adozione di spazi per il recupero mentale, percorsi sensoriali, elementi naturali integrati, e criteri di accessibilità universale. Ma la sfida è più ampia: ripensare il progetto degli spazi come parte integrante del progetto culturale dell’organizzazione.

L’equità come fondamento, non come extra
Uno degli aspetti più delicati della cultura del benessere è il tema dell’equità. Se il benessere è appannaggio solo di alcune categorie (manager, dipendenti stabili, persone senza disabilità), allora diventa un privilegio, non un valore condiviso. La sezione Community del WELL insiste proprio su questo: il design e le policy devono tenere conto della diversità, della disuguaglianza nell’accesso alla salute e delle esigenze di gruppi sottorappresentati.
Anche in Italia, molti ambienti lavorativi, pur in regola, risultano poco accoglienti per chi ha disabilità invisibili, per le madri rientrate dalla maternità, per i lavoratori più anziani o per chi non si riconosce in modelli organizzativi standardizzati. Non basta la compliance normativa: serve un ascolto attivo, una progettazione inclusiva e partecipata, e una leadership che legittimi la vulnerabilità.
La sfida dell’integrazione culturale
Introdurre una cultura del benessere non è questione di adozione di uno standard o di applicazione di singole misure, ma un processo sistemico. Il rischio è quello di una frammentazione degli sforzi: chi si occupa degli spazi, chi del welfare aziendale, chi della comunicazione interna. Per essere efficace, il benessere deve diventare un progetto trasversale, capace di unire architettura, management, psicologia, formazione, sostenibilità.
Il protocollo WELL, in questo senso, può essere una mappa, un'occasione. Non va presentato come la soluzione, ma come uno strumento utile per orientarsi, per porre domande giuste, per favorire dialogo tra figure professionali che spesso lavorano in compartimenti stagni. Il cambiamento culturale è lento, ma può partire anche da dettagli apparentemente banali: il modo in cui si accoglie un nuovo dipendente, la possibilità di trovare un luogo dove isolarsi qualche minuto, la presenza di messaggi visivi positivi e coerenti.

Una nuova consapevolezza
Parlare di benessere lavorativo in un Paese come l’Italia richiede di uscire dalla dicotomia legge vs. carenza. Spesso non è la legge a mancare, ma l’adesione emotiva e culturale a ciò che quelle norme dovrebbero rappresentare. Serve una nuova consapevolezza: che il benessere non è un lusso (a volte con costi vicini allo zero), ma un diritto esperienziale che non si costruisce solo con i benefit, ma anche con i mattoni; e che non si impone, ma si coltiva.
Il contributo del design, soprattutto quando ispirato da approcci evidence-based come la psicologia ambientale, è oggi più rilevante che mai. Non per decorare, ma per connettere. Per fare in modo che ciò che è previsto dalla norma diventi anche desiderato, condiviso e vissuto. Perché il benessere non sta solo nel contratto, ma nello spazio, nella relazione, nella motivazione, nell’ "aria che si respira" entrando in ufficio.
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