Quando il museo ci stanca: comfort, museum fatigue e possibilità di cambiamento
- Matteo Manzi

- 3 giorni fa
- Tempo di lettura: 6 min
Sono un grande amante dei musei. Mi piace l’idea di perdermi nel tempo, nelle storie, nei dettagli. Eppure, sempre più spesso, quando esco da un museo mi sento svuotato, stanco, una sensazione di sovraccarico, come se l’esperienza avesse chiesto “troppo”.
Studiando psicologia ambientale e restorative design, ho iniziato a vedere le cose in modo diverso. Quella sensazione di fatica non è solo soggettiva: ha un nome, museum fatigue, ed è un fenomeno studiato da decenni. Non riguarda solo “quanto abbiamo camminato”, ma il modo in cui gli spazi, le luci, i testi, il rumore, i percorsi e la gestione dell’affollamento dialogano con i nostri limiti attentivi e sensoriali.
In questo articolo vorrei partire dal punto di vista del visitatore comune e intrecciarlo con quello che ci dicono le ricerche sui musei. Perché molti musei risultano stancanti e poco confortevoli? E cosa potremmo fare, in termini di psicologia ambientale e design restaurativo, per trasformarli in luoghi più accoglienti?

Quando la cultura diventa overload: che cos’è la museum fatigue
Il termine museum fatigue viene utilizzato da tempo per descrivere quel calo progressivo di attenzione, curiosità e piacere che molti di noi sperimentano durante la visita a un museo. All’inizio ci muoviamo con entusiasmo, leggiamo tutto, ci soffermiamo sui dettagli; dopo un certo punto iniziamo ad accorciare i tempi di sosta, saltiamo le didascalie, ci limitiamo a un’occhiata rapida, fino ad arrivare alla fase “basta, esco”.
Questa fatica non è solo fisica. È un intreccio di fattori:
Fatica cognitiva: legata al sovraccarico di informazioni, di stimoli visivi, di decisioni;
Fatica sensoriale: quando luce, rumore, temperatura o affollamento diventano irritanti;
Fatica emotiva: quando passiamo troppo tempo in un ambiente che non offre veri momenti di decompressione.
Gli studi parlano di museum fatigue come del risultato dell’interazione tra fattori individuali (attenzione limitata, motivazioni, aspettative) e fattori ambientali. Proprio su questi fattori ambientali si concentra la psicologia ambientale, perché sono quelli che possiamo ripensare e progettare.
Problemi evidenti e possibili soluzioni: quando il museo dimentica il corpo e la mente del visitatore
1. Wayfinding ed esplorazione:
Lo sapevate che le persone quando entrano in una stanza tendono a girare a destra o comunque a rimanere su un lato? Quindi, se il percorso è circolare e c’è un’uscita dall’altro lato, un intero lato rischia di non essere visto. Facendo un solo ingresso/uscita invece ci si assicura una visita più omogenea (solo il 10% dei visitatori fa il giro completo della stanza).
Un buon sistema di wayfinding dovrebbe:
Rendere chiara la struttura del percorso (dove sono, cosa ho già visto, cosa mi manca) anche attraverso colori e/o atmosfere, cartelli (fisici o digitali);
Evitare percorsi dritti troppo lunghi per non incorrere nell’inerzia dei visitatori (se si va dritti troppo a lungo poi si continua ad andare dritti “saltando” stanze e zone laterali);
Indicare con chiarezza uscite con frecce in modo da orientare il visitatore nel percorso e pensare anche a eventuali percorsi abbreviati per coloro con meno resistenza.
L’obiettivo non è solo “non perdersi”, ma dare al visitatore un senso di controllo. Sapere che posso deviare, saltare una parte o fermarmi prima riduce la pressione e, di conseguenza, la fatica.
2. Didascalie e testi:
Le didascalie sono un’altra grande fonte di affaticamento. I problemi più comuni sono:
Testi molto lunghi e densi, scritti in linguaggio accademico, con periodi troppo lunghi;
Caratteri troppo piccoli, contrasto insufficiente o font poco leggibile;
Posizionamento scomodo (troppo in alto, troppo in basso, lontano dall’opera).
Tutto questo richiede uno sforzo attentivo e percettivo alto. Dopo alcune sale trascorse a strizzare gli occhi o a decifrare periodi infiniti, è naturale smettere di leggere. La conoscenza non perde profondità se è offerta in porzioni modulabili: permette semplicemente al visitatore di scegliere quanta energia dedicare a ogni tappa.
3. Affaticamento fisico:
In molti musei si cammina molto e ci si siede pochissimo. Le sedute, quando ci sono, sono spesso poche e mal distribuite. Questo rende la visita una sorta di marcia obbligata: prima cede il corpo, poi cede anche l’attenzione.
Da una logica di restorative design, sarebbe utile:
Aumentare e distribuire meglio sedute e panche lungo il percorso (che dovrebbero sempre essere presenti);
Predisporre il percorso con stanze di “pausa”, con luce più morbida, inserendo magari dei filmati con sedute;
Piccoli spazi di decompressione, inseriti tra una sezione e l’altra, aiutano a recuperare energie e rallentano la discesa verso la museum fatigue.
4. Stimolo cognitivo:
Molti allestimenti propongono lo stesso tipo di richiesta cognitiva per tutta la durata della visita: guarda, leggi, comprendi, ripeti.
Un approccio più attento potrebbe:
Alternare sale dense di informazioni ad altre più contemplative;
Variare i formati (testi, audio, immagini, manipolazione di oggetti);
Prevedere display interattivi:
Non si tratta di trasformare il museo in un parco giochi, ma di riconoscere che l’attenzione non può rimanere sempre alla stessa intensità.

5. Illuminazione:
La luce è una delle dimensioni più delicate: deve proteggere le opere, ma anche permettere alle persone di vederle senza fatica. Nella pratica, capita spesso di trovare:
Sale troppo buie, con opere in penombra e scritte illeggibili;
Riflessi su teche e sui vetri che costringono a cambiare continuamente posizione;
Abbagliamenti da fonti luminose mal direzionate.
Gli studi sull’illuminazione nei musei mostrano che il comfort visivo incide molto sulla soddisfazione del visitatore. Una luce ben progettata:
Rende leggibili testi e dettagli senza sforzo;
Evita forti salti di luminanza tra una sala e l’altra (se la pupilla si espande e si restringe velocemente, si prova stanchezza);
Controlla l’abbagliamento:
Privilegia sempre la luce naturale quando possibile.
Anche piccoli interventi (schermature meglio studiate, revisione dei coni di luce, scelta di temperature di colore più coerenti) possono ridurre sensibilmente la fatica visiva.
6. Comfort termico:
Il clima interno è spesso pensato quasi esclusivamente in funzione della conservazione delle opere. Questo ha senso, ma può tradursi in condizioni poco tollerabili per le persone: sale molto fredde d’inverno, calde d’estate, zero ricambio d’aria.
Quando il corpo è a disagio, consumiamo più energia solo per "resistere", e ne rimane meno per goderci le opere. Anche senza stravolgere gli impianti, è possibile:
Evitare di collocare sedute nelle zone più esposte a correnti o irraggiamento;
Creare aree in cui il clima percepito sia leggermente più neutro e stabile;
Monitorare l’andamento medio dei visitatori in modo da considerare un fisiologico “riscaldamento” se si muovono in fretta o “raffreddamento” se si muovono molto lentamente.
Un museo che tiene conto della termoregolazione delle persone non tradisce la conservazione, ma trova un equilibrio più intelligente fra protezione delle collezioni e benessere dei visitatori.
7. Rumore e affollamento: il paesaggio sonoro della visita
Il rumore e l’affollamento sono spesso considerati inevitabili: se il museo ha successo, è normale che ci sia confusione. In realtà, è proprio qui che la progettazione può fare la differenza, perché la qualità dell’esperienza dipende molto da come suona lo spazio.
Le conseguenze di un ambiente troppo rumoroso sono chiare:
Difficoltà a concentrarsi sulle opere o sui testi;
Impossibilità di mantenere una distanza personale confortevole;
Irritazione crescente, soprattutto nelle sale più grandi con molto riverbero.
Si può intervenire su più livelli:
Gestione dei flussi (prenotazioni scaglionate, percorsi differenziati per gruppi e singoli);
Evitare guide con microfoni o nel caso predisporre sempre cuffie;
Privilegiare audioguide (in questo modo il visitatore sceglie anche il proprio ritmo di visita):
Integrazione di materiali fonoassorbenti nell’allestimento, anche in modo discreto, per spezzare l’eco.
Un museo non sarà mai un luogo di silenzio assoluto, ma c’è una grande differenza tra un brusio gestibile e un frastuono costante. Lavorare sul paesaggio sonoro significa riconoscere che anche le orecchie, non solo gli occhi, fanno parte della visita.

Dalla fatica all'arricchimento : un percorso sinergico
Se guardiamo ai musei con le lenti della psicologia ambientale e del restorative design, emerge un quadro chiaro: questi luoghi hanno un potenziale enorme, ma spesso viene sprecato. Potrebbero essere spazi in cui la mente si ricarica, in cui l’attenzione si sposta dalla dimensione produttiva del quotidiano a una forma di curiosità più libera e giocosa. Potrebbero essere, in termini kaplaniani, ambienti “restorative”: capaci di offrire fascination, distacco, un senso di essere “altrove” senza dover continuamente sforzarsi.
Alcuni studi sperimentali mostrano che i musei vengono effettivamente percepiti come luoghi rigeneranti, a patto che l’esperienza non sia vissuta come troppo lunga o troppo intensa. Quando la visita viene percepita come eccessiva, l’effetto positivo crolla: il museo smette di essere un’oasi e diventa un compito da portare a termine. Questo dato, in realtà, è una buona notizia: significa che non dobbiamo stravolgere la natura dei musei per renderli più salutari, ma “solo” ricalibrare il modo in cui chiedono attenzione.
Più sedute e spazi di pausa, un’illuminazione che faccia vedere bene senza stancare gli occhi, testi realmente leggibili, percorsi modulabili, un clima interno meno estremo, un po’ più di cura per il rumore e i flussi: sono interventi che sembrano banali, ma che cambiano radicalmente la qualità dell’esperienza.
C’è poi un tema di cultura progettuale. Spesso i musei vengono pensati in primo luogo come contenitori di opere, in secondo luogo come spazi architettonici, e solo alla fine (come un po’ tutti gli ambienti ahimè) come ambienti per persone. Coinvolgere fin dall’inizio figure che si occupano di benessere psicofisico, psicologia ambientale, accessibilità, non è un vezzo: è un modo per riconoscere che la qualità della visita non è un dettaglio, ma fa parte della missione del museo.
In fondo, la domanda è semplice: vogliamo che le persone escano dai musei più stanche o più nutrite? Se scegliamo la seconda opzione, dobbiamo accettare che non basta avere collezioni straordinarie o mostre di grande richiamo. Bisogna progettare l’esperienza con la stessa cura con cui si selezionano le opere. Solo così i musei potranno diventare davvero luoghi di cultura diffusa e portare a un circolo virtuoso di passaparola e arricchimento.




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